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Immagine del redattoreAndres Rivera Garcia

La morte come senso della vita



La morte ha da sempre occupato un posto privilegiato nella cultura dell'uomo proprio in virtù del mistero che porta con sé. L'impossibilità di simbolizzare la morte, di possederne il sapere ultimo, ha permesso alle varie culture durante i secoli di plasmarla e di incorporarla all'interno della vita fino a farle occupare un posto talmente particolare da essere addirittura più significativo della vita stessa.


Per lo psicoanalista francese Jacques Lacan, sono due i grandi temi dell'uomo che lo mettono davanti alla propria finitezza: la sessualità e la morte. Entrambi hanno in comune l'impossibile a dirsi, l'enigma irrisolvibile, l'elemento mancante che sveli il meccanismo alla loro base. Una cosa però è certa circa il discorso della morte: l'uomo ha sin dall'antichità cercato un senso alla propria vita vestendo la morte con gli abiti del giudice ultimo.


Prendiamo ad esempio la cultura giapponese durante il tempo dei samurai. Per il samurai, morire in battaglia servendo il proprio signore, era la massima aspirazione per assicurarsi l'onore eterno. Punire un samurai con la pena di morte senza riservargli l'onore di commettere harakiri (il suicidio rituale del samurai) veniva considerato come il peggior disprezzo nei suoi confronti. Ecco che la morte, in tutto il suo mistero, riesce a risignificare posteriormente la vita di un soggetto. Ci sarebbero tantissimi esempi a testimonianza di come le culture passate abbiano vissuto non nel timore ma nella consapevolezza della morte ma non voglio dilungarmi oltre. Passiamo a ciò che ci riguarda.


Com'è vissuta la morte nella società contemporanea?


La morte nella nostra società ha cambiato radicalmente forma, nella sua estremità più problematica: il misconoscimento. Possiamo indubbiamente dire che il fenomeno della morte è alla portata di tutti, spettacolarizzato, accessibile, visibile in tutta la sua cruda nudità. Questo però ha prodotto un paradosso che ha delle conseguenze non di poco conto nel rapporto che il soggetto intrattiene con la vita: l'abolizione della morte. Com'è possibile questo paradosso? E' possibile nella misura in cui la morte non vive nel linguaggio (come idea, come simbolo se pensiamo all'esempio dei samurai) ma come immagine, esperienza al di fuori di noi, come elemento estraneo e perturbante incompatibile con l'esperienza della vita. Le conseguenze? Le vediamo tutti i giorni: rincorse verso illusori elisir della lunga vita, corpi iper-tutelati, megalomaniche idee di assenza di limiti (e la morte, per l'appunto, è il limite massimo che accomuna ogni soggetto); ma anche ipocondria, attacchi di panico, ansia. La morte, nella società contemporanea, è diventata parte integrante del commercio, spogliata dei suoi vessilli ancestrali e della sua dignità. Cosa sarebbe la vita se la morte non avesse alcun senso? O peggio, cosa sarebbe la vita se non considerassimo il reale della morte? Bisognerebbe rieducarsi alla mortalità, tornare ad impastare la dimensione della morte (thanatos) con quella della vita (eros) perché è solo grazie ad un loro equilibrio che il soggetto può vivere una vita dignitosa.


La vita è preziosa solo perché ha una fine. Voi mortali non sapete quanto siete fortunati. (Rick Riordan)
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